Un Beagle e un grosso Mastino, due razze canine selezionate, se messi a confronto si annullano vicendevolmente e diventano ridicole. Non senza un dubbio nella voce, Cecilia chiede a suo marito se è d’accordo su quanto gli ha appena detto. “Come uno che è sul punto di affogare” le risponde Bergamino, “non mi metto di sicuro a giocare a morra con chi mi stende la mano!” Cecilia ride. Naturalmente è più che decisa, gli ultimi incontri con il duca le hanno ispirato tante idee da ricavarne domande precise, come l’ultima: “Tra di noi, esiste qualcosa che si possa definire così grande e importante da volerlo avverare a tutti i costi?” Ludovico Sforza non le risponde. Tenendole le mani mentre lei gli rivela ciò che desidera, abbassa lo sguardo e chiude le palpebre, cosicché il suo sorriso si possa interpretare come un consenso.
Riaperti gli occhi, la fissa e stringendole ancora di più le mani, le sussurra: “Cecilia, ma lo sai che l’ho già pensato anch’io?” L’ambasciatore Giacomo Trotti sta girando per il palazzo ducale senza riuscire a contattare il Moro. Più volte lo incontra, invano cerca di attirarne l’attenzione, spalancando la bocca e alzando l’indice della mano destra. Finalmente si incrociano sullo scalone, lui che sale, l’altro che scende discorrendo con alcuni cortigiani, e il Moro gli risponde. Ammicca e punta il dito in alto, girandolo, come per dirgli, vai lì, io ti raggiungo più tardi. A farla breve, il Trotti rimane lì, l’indice alzato, lo sguardo accigliato che sembra il turbamento di un moralista che trova il cielo sulla terra. Più che bacchettone, in verità, è un chiacchierone, tanto che il duca lo sa e gli fa più volte giurare di non dire nulla a nessuno, memore di quando sparse in giro la voce che il pallore e la prostrazione del suo signore non provenivano da una febbre malarica estiva, frequentissima nel ducato di Milano, bensì dal “troppo coito” con una giovane fanciulla che tiene presso di sé, molto bella, la quale lo segue ovunque egli vada. Un’ora di attesa nei pressi dell’ormai nota stanza, il Moro arriva. Entrano senza proferire parola. Il duca si piazza a gambe larghe davanti alla ben nota apertura e incrocia le braccia. “Ebbene, l’avete trovata. E’ sempre rimasta lì, così ho voluto io, accanto al mio talamo, per mia comodità. La prima ad usarla è stata Cecilia, poi nessun’altra. Il mio orgoglio di classe mi concede, anzi mi obbliga di far camere separate, non posso unire il sacro al profano, soprattutto ora che condivido il letto con Beatrice, anche se vergine, come ben sapete. Ho preferito allontanare Cecilia, non potevo celarla in questa stanza. Ora che voi stesso mi consigliate di far rientrare la mia amante, la farò tornare col marito e mio figlio Cesare. Leggo sul vostro volto la sorpresa, ma penso che la presenza della coppia tranquillizzerà Beatrice, anche se la sistemerò proprio qui dove noi siamo. Quando vorrò stare con Cecilia avvertirò sia lei che il marito. Mantenete il segreto, se si verrà a scoprire, il primo a pagarla sarete voi. So che sopportate le notizie riservate ancor meno di come la carta sopporta la pioggia. La prossima volta, però, non mi tratterrò!” La vasta camera è perfettamente in ordine, quasi a ricordare che il nobile signore ne ha fatto un nido d’amore, anche se in quel momento ogni traccia di una presenza femminile sembra svanita. Giacomo Trotti è pallido, non ha voglia di discutere, vuole evitare ciò che il cozzo dei vari pareri minaccia di scatenare. Pronuncia poche parole, ma ben scelte e conclusive, di elogio della grande saggezza del suo signore, nel quale il punto di vista di ognuno non può trovare che la soddisfazione. Riesce a sorridere e, concludendo, quasi sottovoce chiede: “La duchessa conosce questo passaggio?” Il Moro si guarda in giro, come se fosse lui ad emergere da quella via segreta e, con lo stesso tono di voce, risponde: “Non lo sa, pensa che sia un ripostiglio per medicinali, e in effetti lo è, glieli ho anche mostrati. Ho fatto mettere dei ripiani bordati sul retro del portello di questa camera e vi ho sistemato una piccola farmacia. Vi sono le erbe più diverse, ordinate e raccolte, i fiori di antimonio, il Realgar o zolfo rosso, e molti altri rimedi fornitemi dal medico di palazzo, un bravissimo allievo di Paracelso.” “Tutto questo non ostacola l’apertura?” “Per nulla, bisogna aprire con delicatezza, naturalmente, e ho detto a Beatrice di non farlo mai, perché il medico ha consigliato che meno luce prendono i medicinali, meglio è. ” Il Moro ha avuto ragione. I conti Carminati de Brambilla sono ben accetti da Beatrice e alloggiano nella stanza attigua ai duchi, tranne Cesare che sta con una nutrice. La sera stessa del loro arrivo, la presenza di Cecilia e del Bergamino consigliere di stato del ducato di Milano, viene festeggiata con una suntuosa danza che ha inizio con l’iconografia della passeggiata, dall’incedere processionale, nella quale sfilano le coppie per dare sfoggio dei loro lussuosissimi costumi. L’essere umano danza per trascendere i ristretti limiti dell’io. La danza è motivata dal bisogno di evadere la realtà e i maestri di danza mettono ordine nei movimenti e costruiscono dei sistemi, tanto che la danza diventa una disciplina. Dirige un allievo di Guglielmo Ebreo da Pesaro, convertito al cristianesimo e ribattezzato Giovanni Ambrosio al servizio di Alessandro Sforza. Nelle corti la Bassadanza diventa la regina delle danze, un ballo senza salti e senza movimenti vivaci, legata al sentimento di dignità, molto sentito nell’epoca rinascimentale, periodo in cui non si crede più all’ineluttabilità della decisione divina, ma alle possibilità della natura umana. Nel Rinascimento, nelle feste di corte, i balli dettati dai maestri di danza acquisiscono sempre più delle strutture drammatiche, proponendo i personaggi della mitologia classica. Purtroppo un improvviso attacco di gotta impedisce al Moro di parteciparvi, e il suo posto viene offerto al Bergamino che apre la danza vestito da Eros e tiene per mano Beatrice, Psiche. Il duca assiste alle lente movenze della coppia con Cecilia accanto che gli racconta il mito. Eros, figlio di Afrodite, si innamora della bella Psiche e va a trovarla ogni notte dopo averle fatto giurare di non cercare mai di vederlo in volto, di incontrarlo sempre al buio. Psiche non resiste e una notte accende una lampada ma Eros se ne accorge e fugge. Psiche va da Afrodite, dopo averlo cercato invano, e le chiede aiuto. La dea accetta, però le impone una serie di prove impossibili da portare a termine che Psiche invece supera, tranne l’ultima che consiste di farsi dare da Persefone, dea degli Inferi, una boccetta con l’unguento della bellezza. Ormai giunta al traguardo, sapendo di trovare tra poco Eros, Psiche non sa frenarsi ad usare quell’unguento che la renderebbe irresistibile, e apre la boccetta. Il profumo la stordisce, e Psiche cade profondamente addormentata. Eros che la sta cercando, la trova e riesce a svegliarla con la carezza delle sue ali. Tutti sono felici, anche Afrodite gelosa della bellezza di Psiche, e si possono celebrare solenni e festose nozze. Il duca commenta il mito e dice a Cecilia: “Non so chi l’abbia scelto, ma questo mito sembra fatto ad hoc; un po’ di quell’unguento sarebbe molto adatto a Beatrice e, alla fine, farebbe innamorare anche me.” Accanto alle danze di cerchio o in catena aperta alle quali prendono parte tutti senza gerarchie, si affiancano ora le forme di danza a coppie, che esprimono un nuovo approccio al movimento e alla funzione della danza nelle espressioni di festa e ritualità sociali. Dal De Pratica seu arte tripudii di Guglielmo Ebreo da Pesaro, il suo allievo sceglie delle danze a coppia, molto più movimentate, nelle quali una volta la dama, l’altra il cavaliere, giocano a turno a fare l’ombra, accompagnando il rispettivo corpo. Il Bergamino e Beatrice d’Este sono i più attivi e a tutti appaiono quelli che più si divertono, soprattutto nella mazza rocca e nel saltarello. Il duca li osserva divertito e dice a Cecilia: “Tuo marito e mia moglie sono scatenati, si destreggiano da esperti ballerini. Un po’ ridicolo lui con quelle sue aluccie di penne d’oca, non trovi? Io non amo la danza veloce, come sai, non la pratico nemmeno quando non ho la gotta, preferisco la pavana, un passo avanti, uno indietro, ogni tanto una giravolta, il tutto molto cadenzato e facile da eseguire.” “Ti conosco caro, quante danze abbiamo ballato insieme, eravamo felici in ogni caso! Eccoli che tornano, non prenderli in giro, ti prego.” “Stai tranquilla Cecilia, sto per scoprire un furtivo sentiero che ci condurrà ad un luogo fascinosamente pronto ad accoglierci!”“Mi incuriosisci, ne sei proprio sicuro?” “Come un cacciatore che ha individuato la tana!” Dette quelle parole, il Moro si alza e prova un senso di beatitudine, come se si fosse liberato dal dolore all’alluce. Gli sembra di giacere mollemente nell’acqua tiepida di un bagno e di pensare felice che tutto sia andato proprio così come è andato. Il fato dell’audace è quello di non venir frainteso, in ogni evenienza, e qualsiasi impressione egli cerchi di creare, può starne sicuro che gli provocherà l’impressione desiderata. Pur non avendo alcuna passione venatoria, Cecilia è certa di non sbagliarsi, il Moro sa ciò che fa, ha trovato un rifugio ideale. Bergamino, al contrario, come seduttore è un uomo timido e, in genere, se la passa male a questo mondo. Scopre invece, nella danza, un nuovo modus vivendi. Beatrice, molto allegra e vivace, è lei che sa condurre mazza rocca e saltarello, felice di aver trovato nel suo cavaliere non di certo Eros, ma un uomo finalmente con una statura accettabile e adatta a lei. Sta di fatto che sotto la guida della duchessa, riservatezza e impaccio non solo scompaiono al Bergamino ma si tramutano in audacia e a volte in sfacciataggine. La danza è la molla che spinge fuori l’espressione di una interiorità fino a quel momento compressa, se mai manifestata dal movimento non di tutto il corpo ma della sola mano, durante la scrittura. La musica tocca in Bergamino molto poco la parte razionale, esageratamente quella emotiva. Saltella, strizza l’occhio, fa il buffone, accenna schermaglie amorose con la duchessa che ride divertita.